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Autore:Guerino Nisticò     Data: 30/04/2019  
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Data: 30/04/2019 - Anno: 25 - Numero: 1 - Pagina: 13 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

ASPROMONTE E LETTERATURA CALABRESE

Letture: 249               AUTORE: Giuseppe Condò (Altri articoli dell'autore)        

C’è una montagna in Calabria dove è possibile capire perché i Calabresi “sono come sono”, una
montagna intesa come “categoria morale” ancor prima che come espressione geografica, dove è possibile
penetrare meglio l’indole e i comportamenti dei Calabresi.
Questa montagna è l’Aspromonte, la montagna “più a sud del Sud” dell’Italia peninsulare. Qui,
soprattutto nella prima metà del secolo scorso, scrittori di sicuro interesse hanno prodotto notevoli opere
di narrativa, poesia e saggistica. Qui, soprattutto sul versante orientale che guarda il mare greco, e forse
proprio per questo, la sensibilità di chi ha scritto sui Calabresi è più profonda e capace di tratteggiare più
acutamente l’animo della Regione, molto spesso il dolore e la rassegnazione di un popolo, ma anche il suo
desiderio e la sua volontà di riscatto. E in Aspromonte, primo fra tutti, si erge CORRADO ALVARO (San
Luca 1895 - Roma 1956), che è anche il cantore, nella sua vastissima produzione letteraria, di un mondo
che sta scomparendo, quello dei pastori e dei contadini, dove appunto tradizioni, codici di vita ancestrali
ma anche saperi, passioni e pietà sono i valori fondanti della civiltà calabrese.
A San Luca infatti Alvaro trascorre l’infanzia e il ricordo di quel mondo ormai lontano e che si va
dissolvendo, ritorna vivissimo nei racconti di Gente in Aspromonte (1930). L’opera così si fa memoria,
necessaria per farci capire oggi come siamo e come vorremmo essere domani.
Non lontano dal paese di Alvaro, abbarbicato sui fianchi della montagna che degrada verso lo Ionio,
sorge Careri, patria di un altro scrittore calabrese di prima grandezza: FRANCESCO PERRI (Careri 1885
- Pavia 1974). Il suo romanzo più famoso è Emigranti (1928), dal quale emerge un grandioso affresco del
mondo contadino del tempo attraverso il dipanarsi del vissuto di Rocco Blèfari, il protagonista dell’opera.
Anche qui, come in quasi tutti gli Autori aspromontani dell’epoca, riaffiora l’anima della Calabria povera,
stroncata dalla fatica di vivere e di fronte alla quale l’emigrazione rimane la strada della speranza, tanto
che dalla non lontana montagna di Serra il poeta scalpellino mastru Brunu Pelaggi risponde: “ia fami culla
pala si pigghja e culla zappa; cu pota si ndi scappa a NovaJorca.”
Al pari di Alvaro anche Perri è immerso nel mondo politico della Calabria del tempo, dove non è
facile opporsi al fascismo imperante. Antifascista intellettuale il primo, antifascista “organico” il secondo,
sono in diversa misura perseguitati dal regime che non gradisce “immagini disfattiste” contrarie alla sua
propaganda. Perri però è avversato anche dallo schieramento politico opposto: da sinistra infatti e fin nel
dopoguerra, la dottrina di Gramsci ritiene “anacronistica” la lunga lotta dei contadini per la conquista delle
terre demaniali, lotta così intensamente e mirabilmente descritta in tutta l’opera letteraria dello scrittore di
Careri, preferendo a questa, quella delle classi subalterne e operaie orientate in senso rivoluzionario.
Un altro narratore contemporaneo d’Aspromonte, capace di indirizzare la sua vena di scrittore al dramma
degli ultimi in Calabria, è FORTUNATO SEMINARA (Maropati 1903 -Grosseto 1984). Tra i suoi romanzi
migliori ricordiamo Baracche (1942) e Il Vento nell’oliveto (1951), dove il paesaggio storico ed umano della
gente di Calabria si fa più intenso e vivo per meglio ricalcare la partecipazione corale di un popolo al suo
destino di identità e di progresso. Dice lo stesso Seminara della sua Calabria: “...alla Calabria mitica e favolosa
di Alvaro,... a quella di un realismo pittorico di altri scrittori, si oppone la mia Calabria reale, schietta e scarna,
in movimento. Il contadino, da oggetto di esaltazione romantica, da entità mitica, da oggetto di umanità
umanistica, diventa soggetto di storia, protagonista, con una coscienza sempre più viva ed illuminata.”
In Aspromonte d’inverno violenti e rovinosi corsi d’acqua scendono verso il mare: sono “le fhiumare”,
elementi portanti della narrativa calabrese, dai nomi antichi e fascinosi: Amendolea, Aposcipo, Butramo,
Bonamico, La Verde. Quest’ultima è la fiumara di Bianco, la patria di SAVERIO STRATI (S. Agata del
Bianco 1924 - Scandicci 2014). Di famiglia contadina, autodidatta, passato direttamente dal mondo del
lavoro manuale a quello di scrittore di tematiche meridionaliste, è autore di una intensa produzione letteraria
fra racconti e romanzi, quali La Teda (1957), Tibi e Tascia (1959), Noi lazzaroni (1972), Il selvaggio di
Santa Venere (1977). Da queste opere scaturisce, come sottolinea Pasquino Crupi nella sua Storia della
letteratura calabrese, un disegno di ampio respiro in cui “la miseria, categoria comune a tutti gli scrittori
meridionali, non escluso il grande Verga, non è più la rovina del vivere... non ha più un potere devastatore”,
ma è il modo per riacquistare una nuova dignità. Infatti nell’opera di Strati “I contadini non vogliono più
servire, e da inchiodati sulla terra si trasformano in contadini emigranti. È un popolo di rifiutati che con
rinnovata dignità fuggono dalle loro montagne.”
L’ultimo dei grandi narratori aspromontani, in linea con i precedenti per essere sempre legato ai
temi della Calabria e della sua gente, è MARIO LA CAVA (Bovalino 1908 - 1988). I fatti di Casignana
(1974), tra i suoi libri più famosi, ripropone ancora, su un canovaccio realmente accaduto, il tema delle
rivendicazioni contadine per le terre demaniali usurpate dai baroni. Rivendicazione antica, questa, perché
i contadini del Sud attendono la redistribuzione delle terre già all’indomani dell’impresa dei Mille. Il
romanzo è narrato con rara maestria, affondando le sue radici, come dice ancora Pasquino Crupi, “in alcuni
motivi fondamentali dell’uomo calabrese: la passione d’amore, il sentimento della giustizia, l’attaccamento
alla roba, il timore della morte, la forza morale di resistenza al dolore e alle avversità”. Così dal Montalto,
che Zanotti Bianco, in una sua ascensione, all’alba, aveva forse amato più di un calabrese e dal leggendario
santuario mariano di Polsi, dove i pellegrini, descritti con accenti lirici da Francesco Perri in Migranti,
di notte, a piedi, fra boschi e torrenti, ritornano a percorrere l’antica “via dei canti”, dunque da questa
montagna “aspra e sublime”, la narrativa calabrese sembra convergere verso una sua compiuta grandezza,
capace di far conoscere, ed amare, la Calabria


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